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DIVORZIO ALL’ISRAELIANA
Ronit e Shlomi Elkabetz completano la trilogia iniziata da “To take a Wife” e “7 days” con “Viviane”, dramma contemporaneo di una donna impossibilitata a liberare se stessa...
«Esasperata dalla sua vita matrimoniale, Viviane ha abbandonato da diversi anni il domicilio coniugale e vuole avere il divor- zio nel rispetto delle regole per non esse- re messa al bando dalla società. In Israele infatti, ad oggi, non esiste il matrimonio civile ma vige la legge religiosa che sanci- sce che solo il marito possa concedere la separazione. Tuttavia Viviane vuole poter contare sul sistema giudiziario, sulla legge, per ottenere il riconoscimento di quello che ritiene essere un suo diritto. Ma il marito, Elisha, rifiuta testardamente il divorzio, mentre lei si ostina a volerlo». Così Ronit Elkabetz - qui protagonista, regista e sceneggiatrice - racconta il suo film, realizzato ancora una volta assieme al fratello Shlomi, e che grazie a Parthenos Distribuzione avrà un più che meritato posto anche nelle sale italiane a partire da giovedì 27 novembre.
La pellicola, come già il titolo originale (“Gett – The Trial of Viviane Amsalem”) sottolinea, ripercorre l’intero iter processuale nel quale la donna si trova incastrata. Sebbene difatti la scelta di portarlo avanti sia solo sua, e dell’avvocato che la affianca e strenuamente la sostiene, ciò con cui dovrà scontrarsi metterà a dura prova ogni sua più strenua volontà. Un atto infinito che sin da subito assume i contorni della farsa più pura: reale come quella che le donne, in questo caso israeliane, quotidianamente affrontano e che il film qui ben documenta; finzionale come nella ricostruzione operata dai due registi Ronit e Shlomi, dove toni e tempi sono dettati dall’alternarsi di volti, testimonianze, e silenzi. Prolungati e pazienti come quelli di Viviane, protagonista suo malgrado di attese interminabili; rabbiosi e subdoli come quelli di un marito, Elisha (Simon Abkarian), pronto a tutto, anche al carcere, pur di non darla vinta alla sua sposa “ribelle”.
Un’opera che corre quindi sul filo del doppio registro, dove gli attori, abili “commedianti”, si aggirano tra le quinte di un’ambientazione fissa - l’aula di un tribunale - teatro di ogni dubbia, o veritiera, messa in scena. Un non-luogo, esterno al mondo eppure epicentro della vita pubblica e privata di ciascun abitante, in cui nessuno è cittadino ma tutti sono figli di dio. E anche chi è laico, o non credente, o semplicemente un po’ più razionale, è costretto a sottostare all’imposizione divina cui si affida uno Stato solo apparentemente evoluto, proprio come i suoi stessi “rappresentanti” della legge. Come ricordano infatti sempre i registi: «Oggi in Israele il matrimonio è governato dal diritto religioso a prescindere dalla comunità di appartenenza dei coniugi e dal fatto che siano religiosi o completamente laici. Quando una donna pronuncia il “sì” viene subito privata del “gett”, del diritto di divorziare, poiché solo il marito ha facoltà di scegliere. Ed è sacro dovere dei rabbini fare di tutto per preservare il nucleo familiare ebraico, rendendoli così più che reticenti a privilegiare il desiderio del singolo di sciogliere il matrimonio». Un territorio dunque affatto neutrale, testimone di scontri e incontri entrambi spietati, dove il tempo si dilata e l’attesa diventa infinita, nel mancato rispetto di una donna - qui rappresentata da Viviane - imprigionata “ad libitum” a seconda della volontà, talvolta pietà, financo misericordia, del carceriere di turno.
Uno spietato circo in cui ciascun figurante tira fuori i suoi trucchi per incantare, o distogliere, i giudicanti dall’ardua sentenza. Ancor meglio: un nuovo e “moderno” teatro dell’assurdo dove tutto è immobile, e la cui risoluzione tanto attesa, proprio come quel Godot di beckettiana memoria, fatica non solo ad arrivare ma persino a scorgersi, all’orizzonte di una finestra invisibile eppure tangibile, affacciata su quel mare di speranza tanto vana quanto inspiegabilmente smisurata. |
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Noemi Euticchio |
27-11-2014
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