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L’ULTIMO SALTO DEL CANGURO

Con scrittura pulita e registro stilistico ben controllato, Paolo Vanacore, autore teatrale e regista napoletano, ambienta il suo romanzo “L’ultimo salto del canguro”, edito da Castelvecchi, nel cuore dello zoo capitolino, riversando la storia di un amore fragile, tondelliano, nato tra le mura domestiche, complici di un incontro casuale.
Edoardo, il protagonista, incontra Gabriele, il nuovo fidanzato della sorella Margherita, durante il concerto del primo maggio, e da qui nasce la parabola del sentimento.
E la speranza.
Quella di sgretolare un tabù, la vita facile. La famiglia, in un’altalena dei rapporti tra i due fratelli, tra timidezza ed esuberanza, segreto e rivelazione.
Non andiamo oltre nella storia, perché quello che qui interessa è piuttosto come l’autore svela i personaggi.
È la costruzione narrativa il tratto più interessante, là dove nasce il protagonista, a contatto con il bioparco, il luogo dove lavora Edoardo.
L’istinto legato alla sfera affittiva è un terreno che rimette in circuito la vita animale, la sopravvivenza, la collocazione dentro la gabbia, l’ammirazione estetica, l’equilibro dentro due mondi e quello all’interno di un recinto.
Edoardo è dentro questo conflitto. Lo è da prima, coesistendo.
Il viaggio nei sentimenti è allo stesso tempo un viaggio reale tra gli animali.
L’io narrante diventa scomodo, perché Edoardo, schivo, timido, è costretto a inseguire e celare la sua passione, fino ad incrinare il rapporto con sua sorella.
Le pagine più felici di questo romanzo stanno nel portare in superficie la condizione esistenziale di Edoardo: è piombato dentro la vertigine di un desiderio inaspettato.
Nel rapporto con la sorella, che nulla vede all’inizio, nei passi dentro un contesto familiare, nella necessità di rompere equilibri delicati, Edoardo si muove con difficoltà, circospezione, e molti dubbi.
Vanacore riesce a far navigare bene questo lato, che incrina lentamente la coscienza del protagonista.

C’è poi una descrizione minuziosa del mondo animale accanto al pudore, ai piccoli segreti nascosti della vita familiare, dove una madre finge di non sapere delle scappatelle del marito.

Vanacore mimetizza perfettamente la verità con il respiro dato ai personaggi, legandolo all’ironia, al grottesco, al dramma, alla schiettezza che si presenta con tutta la sua luce, fino a tornare sul concetto iniziale: l’apparenza.
Un gioco sulla limpidezza capace di forza dissacrante.
L’espediente letterario del mondo animale, fra lemuri, canguri, ippopotami, pinguini e scimmiette, accorcia la distanza con l’apparenza.
La famiglia è trappola, la pulsione è istinto ambiguo, che solo apparentemente libera.

Vanacore modula la forma linguistica, dal colloquiale all’accuratezza meticolosa, fino alla scelta di un tono profondo, restituendo, questo è da dire, dialoghi senza sbavature dove davvero si vede la mano dell’autore di teatro che taglia e ricuce, eliminando le strutture sovrabbondanti.
L’uso della punteggiatura è costruito in modo tale da rendere percettibile l’organizzazione visiva del periodo, intervenendo sul testo per recuperare il ritmo, alternando le voci tra un dialogo e l’altro.
Alberto Sagna
19-04-2018

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