Lettere d’amore allo Yeti
Nell’immaginario di un bambino aleggiano speranze accanto a demoni.
È questa la fiaba nera di Enrico Macioci che racconta nel suo ultimo libro “Lettera d’amore allo Yeti”, pubblicato da Mondadori, 2017, pagg. 272, costruita nel suo incipit tra le pieghe di un foglio con una breve lettera indirizzata allo Yeti scritta da Nicola, un bambino di appena sei anni che la porge al padre, nel sottofondo di un’assenza, di un vuoto furioso creatosi nella mente di un figlio dopo la tragica scomparsa della madre.
Nell’immaginario di un padre, il senso di protezione sorvola sugli incubi notturni del figlio e regge il filo narrativo del reale, creando così la linea netta di demarcazione tra il soprannaturale e il mondo degli adulti, tra il lutto e la vita, tra il destino e il male.
Non è sufficiente riporre la lettera nel cassetto delle meraviglie, non è possibile fermare il demone dell’immaginazione.
L’ossessione dello Yeti prende forma là dove era nata, dentro un computer, in tv, nello stesso stabilimento, nel lento scorrere delle giornate d’aria calda, tra epifanie, déjà vu e voci acute, quelle del figlio che la mamma chiamava “tirabaci”, per trasformarsi in domande.
L’ambientazione, un luogo di villeggiatura d’Abruzzo, dovrebbe rassicurare, la vita dovrebbe riprendere, la normalità sembrerebbe riavvicinarsi, ma ecco che a rompere l’equilibrio s’incunea la scomparsa di un’animatrice alla quale il piccolo Nicola era legato e, così, al gioco del rapporto tra padre e figlio si sostituisce un mistero, abbrutendo i contorni di una stagione estiva.
Con la scrittura di Macioci i particolari seguono il simbolo, la storia si apre, il narratore sembra tenere le fila sopra i dialoghi, facendo capolino, scivolando via tra l’amicizia che nasce tra il bambino e un uomo gigante, Teodoro Inverno, con lunghe e infinite conversazioni, come se le storie tra soli adulti dovessero perdere d’interessere perché prevedibili.
E il padre, Riccardo, quando sembra farsi scudo con una conoscenza che rassicura, Walter, avido lettore come lui di Stevenson che gestisce il bar sulla spiaggia da cui vede e sorveglia il figlio, parlando di filosofia, piomba nel buio quando il figlio si allontana dalla sua vista. Da qui sente l’eco delle parole del figlio che ripetono “segreto”, paura, come macchie nere che annichiliscono. Proprio nel punto esatto in cui è sparita l’animatrice erano scomparse altre quattro persone negli ultimi anni, vicino a un chiosco a forma di limone. Da un momento di normalità usciranno segreti cupi, che si sveleranno mano a mano, nel pettegolezzo che avvolge un intero paese, dentro un sogno ricorrente.
E veniamo alla struttura sintattica del romanzo. La scelta della lingua è tutta incentrata sul fiabesco e l’horror, la stesura sembra aver seguito una cura della parola che porta con sé sempre l’animo immaginifico del bambino, anche quando è visto con l’occhio del padre. Lo strumento per aprire i dialoghi e costruire la trama è l’imprevedibilità della voce, che altro non può essere che quella di un bambino, tanto dal largheggiare tra il mistero e l’horror, la fiaba e il male. L’immaginario del bambino è collettivo, raccoglie qui tutti i frammenti.
L’adozione di uno schema ibrido diventa una scelta di campo per una lingua creativa, in un registro dove al centro è il mito dell’immaginario.
L’obbiettivo che si coglie fino a tre quarti del romanzo è quello di collegare il genere fantastico con l’horror, per inerpicarsi sulla strada segnata dalla morte di una figura familiare importante, qual è la madre di Nicola, che incarna la miccia di tutto e la fantasia del bambino in una dimensione soggettiva pura, non eroica.
Sondare il dualismo diventa un imperativo categorico, e lo Yeti riporta alla luce lo sdoppiamento della personalità, tra corpo e anima. È l’ambivalenza tra mito e letteratura, incarnata dai personaggi.
Si sente molto l’influenza di Collodi nella trama, così come lo sfondo nero viene pescato dal canone kinghiano, e la suddivisione della storia in due parti sembra essere la conferma di una precisa scelta dell’autore nell’adottare un canone letterario, diversificandolo: da un lato il mondo normale, dall’altro quello trascendente, da un lato i sentimenti, dall’altro l’horror vacui.
Ma nella tela abitata dal fantasma, che è la madre, che è la moglie, che è lo Yeti, che diventano le persone scomparse, tutto rimane accentrato nei segni istintivi che si scambiano padre e figlio, come a ricordare che solo la vita reale tutto può rinnovare, anche di fronte a una luce lontana, laica nonostante i simboli che lambisce. |