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La lettura del tempo di Gian Luigi Piccioli

Con Galaad Edizioni viene riportato alla luce il romanzo di Gian Luigi Piccioli, “Tempo grande”, pubblicato nel 1984 da Rusconi e ora inserito nella collana “la Quercia e il Tiglio”, a cura di Simone Gambacorta, critico letterario e giornalista, evocando nello sfondo l’esplosione totalizzante dell’informazione in uno studio televisivo romano, a piazza di Spagna, aprendo la strada alla narrazione di mescolanze tra cultura e denaro, massificazione dei profitti, ricerca spasmodica della spettacolarizzazione non dissimile da ciò che avviene ora e forse perciò preconizzando un futuro sospeso a metà tra linguaggio e immagine, dove la corruzione del vero diventa aggressione, cinica operazione.

Per sviluppare una storia che sembra ancora viva, con un occhio puntato all’abbassamento del livello standard nella produzione televisiva di qualità, Piccioli mette in scena il rapporto umano, tra Roma e la Tanzania, di un conduttore, Marco Apudruen, e uno scrittore, Gigi Insolera.

È proprio la meccanica d’interazione tra i due, il primo, cinico, spietato negli obbiettivi, lo scrittore dotato di sensibilità, mentre vengono trasmesse immagini che arrivano in simultanea in ogni ora del giorno e della notte comprate da tutto il mondo, che svela la cornice preparatoria del romanzo e della storia dentro lo studio televisivo della “TDN Telemonti Data News”, con un grande teleschermo, la moviola con le consolles di comando, le tre finestre d’angolo, un secondo teleschermo e un telaio con cinquanta monitor, ognuno dei quali in onda senza audio e con un programma diverso.

Con linguaggio narrativo preciso, Piccioli punta il dito contro le bugie, quelle che entrano di sbieco in uno studio televisivo per poi diventare abituali e per ciò stesso “di moda”, il travestimento giusto, lo specchio incrinato di una verità che non appaga come invece la menzogna quando arriva come prodotto di marketing, abbellimento.
Perché tutto è lavoro, servizio giornalistico.

Tra il conduttore e lo scrittore compare una sensuale fotoreporter, Marianna Estensi, che sconvolge il rapporto professionale tra i due, l’amicizia, e da qui inizia lo sguardo attento di Piccioli, mai moralista, capace di inglobare il linguaggio amoroso, quella sorta di triangolo, nel destino fallace di una sempre più bulimica televisione, radicando i sentimenti dentro lo spaccato della società di spettacolo per evidenziarne l’identità, l’illusorio successo, e ancora il tentativo di riportare la letteratura a ricoprire il ruolo di strumento capace a decriptare più segnali, immagini, trame. Quelle stesse immagini che ha visto dal tubo catodico finiscono per spersonalizzare e poi manipolare il telespettatore rendendolo bulimico, e incapace di riflettere.
Per addentrarci all’interno di questo romanzo visionario abbiamo bisogno della sapiente introduzione di Simone Gambacorta:

“I libri di Piccioli, salve tutte le differenze, si parlano: torna infatti in Tempo Grande la combinazione tra l’ingorgo e l’ingranaggio da cui nacque il neologismo Inorgaggio, titolo del romanzo d’esordio dello scrittore. Emblema del mondo di Apudruen, Insolera ed Estensi è un’unica grande immagine che ogni immagine può ghermire e assorbire, rubare e metabolizzare, pretendere e ribattezzare.”

Piccioli da subito lega le parole, la scrittura al mondo della televisione. Lo fa introducendo i personaggi e facendoli muovere. Così per Gigi Insolera, quando in terza persona, già dalla seconda pagina del romanzo, rivela che “Scriveva quando poteva, e con una certa allegria, anche se i suoi romanzi non interessavano nessuno, o quasi. Invece la sua scrittura, nata dai romanzi, era molto apprezzata nello studio televisivo, dove in pochi minuti tagliava su misura un vestitino di parole ai servizi che trentacinque corrispondenti inoltravano giorno e notte, da altrettanti paesi.”

Insolera piegherà i filmati con le sue parole, per far uscire dissonanze, in un mondo abitato da servizi televisivi, ingrandendo ancora il tempo, ingannandolo sottotraccia.
La vita di un intellettuale al tempo della tv, che rifugge in silenzio da un mondo assordante, compiendo invisibili atti di resistenza continua.
Insolera è descritto attraverso una narrazione onniscente anche con piccoli atteggiamenti, oggetti, abiti: “pantaloni normalissimi”, “una birra in mano”, “e l’aria desolata di chi non può interrompere ciò che sta facendo, pena la fine del mondo”.

È un gioco di corrispondenze, di didascalie tra le immagini, un flusso ininterrotto del quotidiano, che genera inquietudine, e recuperato a distanza di anni come romanzo di nicchia sulla mutazione mediatica, per diventare oggi terreno fertile di studio attento della lingua letteraria nella deframmentazione della realtà.
E, forse, il titolo ha segnato il percorso infinito di quest’opera, nella visione critica, che è aperta, fluida verso il divenire, e nei confronti di una collisione tra ciò che proietta lo schermo come immagine e la parola assoggettata al processo di metamorfosi, ma che sa muoversi come un elastico, ripescando dal passato.

Gian Luigi Piccioli (1932-2013) ha lavorato per l’Eni e ha scritto reportage dal mondo per le riviste “Ecos” e “Synchron”.
Tra i suoi romanzi ricordiamo “Inorgaggio” (Mondadori,1966), “Arnolfini” (Feltrinelli, 1970), “Epistolario collettivo” (Bompiani, 1973), “Sveva” (Rusconi, 1979), “Viva Babymoon” (Bompiani, 1981) e “Cuore di legno” (Rizzoli, 1990).
Alberto Sagna
27-09-2019


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