Il colibrì di Sandro Veronesi
Terminata la lettura di questo romanzo, la prima cosa che torna in mente è l’impianto narrativo, gestito in maniera davvero originale. Perché nessun capitolo assomiglia a quello precedente, perché tutti i capitoli sono legati da diversi fili che alla fine riconducono a una concezione filosofica della vita, a un’esplorazione degli addii e degli incontri dentro un percorso di strenua resistenza a dolori incommensurabili che s’insinuano nel lungo percorso esistenziale del protagonista. Che forse è un antieroe, o un eroe silente, uno di quelli che ogni giorno incontri senza sapere il fardello che porta, perché non strilla, non batte i pugni. È come se Veronesi avesse cercato di lasciare piccoli semi sparsi ovunque dentro una grande architettura, legando a doppio filo il protagonista e il lettore, la storia e la tragedia, il riscatto e il destino. Tutto inizia con alcune domande. Un interrogatorio insolito dentro un ambulatorio, a Roma, in una mattina di metà ottobre del 1999, nel quartiere Trieste, tra due medici: Marco Carrera, specialista in oculistica e oftalmologia, e Daniele Carradori, che svela subito di essere uno psicanalista, guarda caso quello della moglie, ed è lì per infrangere una delle regole primarie sancite dall’Ordine degli psicologi. Ha deciso di rivelare un segreto professionale proprio nello studio di Marco Carrera, e lo deve fare a tutti i costi. Un disturbo che da tempo affligge la moglie. L’ossessione della donna verso il tradimento e il sottile velo di due verità contrapposte, quella della moglie che si era confidata con il suo analista, e la negazione di Marco Carrera, che è altrettanto una verità o più esattamente l’accusa che proprio la moglie non è stata sincera, scagionandolo così da un imminente pericolo. Perché le menzogne possono essere più efficaci della verità occultata. Eppure, proprio quel terribile segreto che l’analista custodisce può salvare un’esistenza, o mettere una relazione di fronte a un muro. Il gioco della scrittura inizia con le date, le domande, una violazione, e lo scorrere del tempo.
Sandro Veronesi costruisce questo romanzo, edito da La nave di Teseo (2019), su diversi livelli. Il primo è il nome, quello del libro. Sin dalle prime pagine decide di rivelare al lettore chi è il colibrì. Un soprannome, quello che la madre di Marco Carrera gli aveva dato a quattordici anni, per via della statura: era il più basso dei suoi coetanei. E suo padre lo aveva portato a Milano per sottoporlo a una cura sperimentale, una di quelle che bombardano i bambini di ormoni. Ecco, si direbbe che la trama è già spiegata. E, invece, questo è solo un tassello, per andare avanti e indietro nella storia, con livelli temporali intercalati da lettere, molto private, intime, e direi segrete. Così segrete che nessun altro lo sa o lo dovrebbe sapere. E che riguardano una donna, Luisa Lattes, spedite a un fermo posta, a Parigi, 59-78 Rur des archives, anche nell’aprile del 1998, il 17 per la precisione. Ma non solo. Dentro questa intima segretezza, dentro le lettere che si alternano ai vari capitoli, Veronesi costruisce il personaggio femminile, la confessione di un amore e delle occasioni perdute, l’urto di un divorzio e i traslochi, ma allo stesso modo definisce il tempo, cristallizzando date con brandelli di memoria. Per creare piccoli sipari, Veronesi utilizza non solo queste lettere, ma anche messaggi comunicativi moderni, come gli sms, o poesie dentro le lettere, come quelle citate da Luisa nei tre fogli ritrovati dentro una copia di “Centuria”, il libro di Giorgio Manganelli a cui aveva lavorato durante il periodo di dottorato.
Il Colibrì è, allora, questo, una metafora che si sussegue nel tempo. Sarebbe troppo semplice dare una definizione, descriverlo come animale o uomo. È esso stesso oggetto (insidioso e) funzionale alla costruzione di più personaggi. E a proposito del colibrì, dell’uso delle parole disposte nel grande telaio di questo libro, non è un caso che il primo dei molteplici significati emerga come uno dei segreti conosciuti dallo psicologo, che rivendica con la retorica dell’inquisizione analitica. Domande brutali che si susseguono in brevissimo tempo con particolari che solo pochi potevano conoscere e svelano già una mezza verità. Interrogativi che porteranno la storia a ritroso, sino agli anni ‘70, e poi di nuovo in avanti, spingendosi fino al 2030, ricucendo sempre con il tempo perfettamente suddiviso e scandito da personaggi che si alternano. Ma gli indizi trovano un lungo cammino, vanno oltre.
“ (…) tu sei un colibrì perché come il colibrì metti tutta la tua energia nel restare fermo. Settanta battiti d’ali al secondo per rimanere dove già sei. Sei formidabile, in questo. Riesci a fermarti nel mondo e nel tempo intorno a te, certe volte riesci addirittura anche a risalirlo, il tempo, e a ritrovare quello perduto, così come il colibrì è capace di volare all’indietro.”
Proprio con questi spazi di tempi brevi e intervallati da lettere, Veronesi consegna al lettore una storia fluida e allo stesso tempo un mondo della borghesia romana, con i suoi cliché, le abitudini, le ritrosie, le collezioni Urania, attraverso un linguaggio sperimentale, modulato con i salti temporali tra amore idealizzato, abbracci salvifici, lutti che si susseguono, slalom sentimentali e la morte.
A proposito di oggetti, ci sono due livelli di scrittura. Veronesi dissemina oggetti anche per descrivere la distanza dalla realtà, per creare una barriera da un evento doloroso come il lutto: l’amaca, ad esempio, è oggetto, metafora, e superamento dalla disperazione. Lo strappo alla regola. Ognuno di questi oggetti sembra connotare un archetipo, quello della resistenza. Nonostante tutto il male di vivere. Nonostante che il punto di partenza e di arrivo coincida con una piccola vibrazione, un battito d’ali dentro un moto apparente, continuo, nel grande cerchio delle declinazioni affettive. |