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LA PRESENZA E L’ASSENZA DI FRANZ KRAUSPENHAAR

La città dove si ambienta il giallo è Milano, ma qui non interessa tanto il plot, o svelare l’epilogo, piuttosto la forma, una scrittura che si appoggia sulle...

C’è un impatto iniziale che arriva con forza leggendo il nuovo romanzo di Franz Krauspenhaar, “La presenza e l’assenza” edito da Arkadia nella collana Sidekar, ed è quello di un’ambientazione cupa, intersecata da un linguaggio che segue la storia, la avvolge, fino a diventare funzionale alla costruzione millimetrica del personaggio in un mondo che codifica la disillusione come inevitabile.
La città è parte integrante della storia dove si radicano i personaggi, la città fa ruotare le vite, gli umori, la città diventa personaggio.
È un’ombra nera che insegue.

La città dove si ambienta il giallo è Milano, ma qui non interessa tanto il plot, o svelare l’epilogo, piuttosto la forma, una scrittura che si appoggia sulle viscere del detective, Guido Cravat, una forma capace di scivolare naturalmente lungo il percorso narrativo attraverso anche piccole incursioni di una lingua polimorfa che incorniciano perfettamente la tensione nella sua radice, sensazioni che fotografano il contesto.
Perché la crudezza, o l’uso di una lingua diretta, riesce qui a tirare fuori non solo il giallo, o il mistero, ma tutta la paura di perdere ogni riferimento, il timore che da un giorno all’altro possa essere messa a nudo la follia, quella di un detective che guarda lo specchietto retrovisore, fissando il sedile posteriore, e scopre una presenza - assenza che viaggia nell’abitacolo, un dolore, un fantasma che lo insegue dappertutto.
Guido Cravat ormai non vede con gli occhi, ma con lo stomaco che pulsa.
Questo concentrato di anima sofferta deve portare avanti un’indagine, un lavoro professionale, l’incarico ricevuto per trovare la signora Tommei.
Un incarico scomodo, strambo e inquietante, tra domande che aleggiano di continuo, conclusioni e cambi di scenario.

Com’è possibile che un ricco industriale si rivolga proprio a lui, semplicemente trovandolo sulle pagine gialle?
È il marito della donna scomparsa, Rossano Tommei, che gli affida l’incarico, assume informazioni preventive sul suo conto da un avvocato. Tutto inizia otto giorni dopo la scomparsa della moglie, quando era diventato impossibile aspettare oltre, attendere un ritorno, una telefonata, una voce femminile.
Guido Cravat è un ex poliziotto, fresco di nomina, avrebbe fatto poche domande.
Rossano Tomei telefona al detective con la mente ancora avvolta nel corpo nudo della moglie che scivolava tra le lenzuola, andando su e giù, e i suoi capelli che cadevano come fiori colati a picco, fiori di lutto.
Guido Cravat rimarrà invischiato in una faccenda senza tariffe e ambigua.

Franz Krauspenhaar consegna l’immagine di una Milano nera come la pece viscosa, scura nelle vie e grottesca, sospesa nell’area rarefatta tra malinconia e ossessione, quella persistente, che inghiotte le vite degli altri, di tutti, come un chiodo piantato nella testa.
Guido Cravat è un detective ma anche il “tassista di un’anima in pena”, si lascia guidare dal suo istinto, dalla brace che arde nel suo stomaco nella catena degli eventi che si susseguono.

E qui arriva la forma particolare del romanzo, l’alternanza di voci, tra il “tu” e la narrazione in prima persona, proponendo in dialogo spezzato con l’altro sé, uscendo dalle righe di un hard boiled americano per sconfinare sul tema esistenziale, non scontato, carnale, alla ricerca spasmodica di ogni traccia.
Il romanzo parte con l’utilizzo della terza persona nel primo capitolo, introduce così la storia di Rossano Tommei e sua moglie, sospesa tra un cellulare lasciato nel portasapone e l’ultima chiamata ricevuta, un numero fisso, un numero segnato sullo schermo.
Poi arriva la scomparsa della donna, e il secondo capitolo entra dritto come un pugno nello stomaco, usando il “tu” per scolpire il dialogo interno, il soliloquio disturbante di Guido Cravat.
È la sua nuova vita che chiama, quella di detective.
La prima persona è un’altalena tra il “tu” interno, cioè l’angoscia, il respiro di miasmi notturni, il marasma, e l’ “io” che deve comunque andare avanti, forzando la vita passata.
L’altalena di voci viene usata per segnare con la matita rossa il cambio di tono, di umore.
Il “tu” diventa la coscienza critica, uno specchio incrinato.

Proprio dentro i particolari di queste zone d’ombra, con una tessitura multiforme, arriva la scrittura tesa a decriptare il mistero.

Nel complesso, al di là dell’equilibrio tra le voci usate come un’altalena, sembra proprio che questa nuova strada di Franz Krauspenhaar possa diventare un terreno fecondo, sapendosi muovere con estrema naturalezza tra vite dissolute, ombrose, attraverso un linguaggio crudo e realistico, in perenne lotta con le convenzioni, usando colori molto accesi dentro la nebbia della città.
Alberto Sagna
22-09-2020


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