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Il Premio Calvino 2021 di Francesca Valente: storia di un testo letterario

Il romanzo vincitore e le menzioni speciali sono stati proclamati dai giurati Mario Baudino, Isabella Camera d’Afflitto, Valeria Della Valle, Giorgio Falco e Alessio Torino

Nella splendida cornice del Teatro Cap 10100 di Torino si è svolta la Cerimonia di Premiazione della XXXIV edizione del Premio Italo Calvino, e la Giura, all’unanimità, ha designato come vincitrice l’opera di Francesca Valente “Altro nulla da segnalare. Storie di uccelli.”
Il romanzo vincitore e le menzioni speciali sono stati proclamati dai giurati Mario Baudino, Isabella Camera d’Afflitto, Valeria Della Valle, Giorgio Falco e Alessio Torino. Il direttivo del Premio – composto da Franca Cavagnoli, Anna Chiarloni, Mario Marchetti, Laura Mollea, Carla Sacchi Ferrero – ha poi insignito l’opera non finalista “La pace sotto gli ulivi” di Antonio Galetta con una menzione speciale del Direttivo.

Sono state assegnate tre menzioni speciali a pari merito, e in particolare a “L’età delle madri” di Vittorio Punzo, a “Noi non siamo la risposta” di Stefano Mussari e a “Rattatata” di Alfredo Speranza.

Il Premio è stato fondato a Torino nel 1985, poco dopo la morte di Italo Calvino, per iniziativa di un gruppo di estimatori e di amici dello scrittore tra cui Norberto Bobbio, Natalia Ginzburg, Lalla Romano, Cesare Segre, Massimo Mila e molti altri. Ideatrice del Premio e sua animatrice e Presidente fino al 2010 è stata Delia Frigessi, studiosa della cultura italiana tra Ottocento e Novecento e a lungo impegnata sul fronte del disagio mentale degli emigranti.

Riportiamo la motivazione della Giuria per l’opera vincitrice: La Giuria decide di assegnare all’unanimità il Premio ad “Altro nulla da segnalare. Storie di uccelli” di Francesca Valente, un testo letterario dalla struttura originale, che mescola documentazione e invenzione in un progetto di notevole consapevolezza. L’opera delinea, con scrittura limpida e elegante e delicata empatia umana i ritratti di chi ha avuto a che fare ‒ matti e non solo ‒ nei primi anni Ottanta col repartino aperto dell’Ospedale Mauriziano di Torino. A quarant’anni dalla Legge Basaglia una riflessione narrativamente coinvolgente sull’istituzione psichiatrica.

Franco Basaglia è stato il fondatore del concetto moderno di salute mentale, a lui si deve la Legge 180 del 1978 che trasformò il vecchio ordinamento degli ospedali psichiatrici italiani, promuovendo un nuovo trattamento e la cura dei disturbi mentali, mettendo al centro la dignità del paziente, il rispetto della persona umana. Fece eliminare la terapia elettroconvulsivante e incoraggiò un nuovo tipo di approccio relazionale da stabilire tra malato e medico, o personale psichiatrico in generale.

Il malato psichiatrico non doveva essere più una persona da nascondere agli occhi del mondo, ma un individuo da aiutare, recuperare e riabilitare, riprendendo concezioni filosofiche esistenziali a partire da Sartre e Merleau-Ponty, per poi approdare a Foucault.
Il 13 maggio 1978 fu approvata la legge di chiusura delle istituzioni manicomiali, nota come Legge Basaglia.
Ci fu un vero movimento di riforma che portò a una profonda riflessione in Italia sul concetto di malattia mentale ed esclusione sociale, non solo in campo sanitario ma anche in termini politici e culturali.

Francesca Valente ha risposto ad alcune domande sul suo libro, interrogativi nati come un discorso dove si è tentato di abbracciare i
punti nodali della scrittura, lo stile, l’organizzazione strutturale del lavoro, ma anche l’impegno e la fatica nel portare avanti un progetto narrativo che intrecciava vite e drammi reali.

Come è nata l'idea di questo romanzo?

Anni fa l’amico psichiatra Luciano Sorrentino venne da me con una serie di “quadernacci” risalenti ai primi anni ’80, appunti degli infermieri del neonato SPDC dell’Ospedale Mauriziano di Torino, il repartino, uno dei primissimi esperimenti di “reparto aperto” in Italia dopo la promulgazione della Legge 180. Sorrentino e io eravamo amici da molto tempo, da quando mi era stato presentato da mia sorella Tiziana, che era molto attiva in Psichiatria Democratica quando lui era Presidente della Onlus Psichiatria Democratica Europea.
Quei quaderni erano rapportini informali nati su iniziativa degli infermieri, non dell’istituzione, per comunicare con chi avrebbe avuto il turno successivo e con i medici. Va detto che si trattava di un’epoca di sperimentazione, dove si tentavano soluzioni nuove, risposte inedite, alla sofferenza del malato mentale: i medici basagliani si erano tolti targhette e camici, in molte strutture nemmeno si tenevano le cartelle cliniche, si rifiutava la contenzione meccanica, il dialogo aveva la meglio su tutto. Si stavano riscrivendo le regole, annullando l’orrore di quelle esistite fino a quel momento. Credo che la narrazione nei rapportini sia stata parte di questo cambiamento.
Sorrentino sapeva che scrivevo, pensava che ci si potesse fare qualcosa, con quelle tracce e con i suoi racconti, i ricordi di una vita, la sua. Ricordi legati a quegli anni così cruciali. Lo scopo era dimostrare, con una narrativa in cui s’innestassero elementi di realtà, anzi che scaturisse da quella realtà, che era stato fatto qualcosa di incredibile, all’epoca, anche se imperfetto e in divenire: che la rivoluzione psichiatrica aveva prodotto risultati straordinari, che le esperienze umanissime che ne erano nate erano state l’espressione del successo della riforma basagliana. Così, a partire da una frase dei rapportini o un ricordo di Sorrentino ho ricostruito storie di uomini e donne che passarono per il repartino o nelle strutture nate dal superamento di Grugliasco e Collegno, ho inventato storie possibili, realissime, che raccontano di un’esperienza umana molto intensa. Accanto a queste, parte della storia vera dell’attore Carlo Colnaghi, dell’infermiere Tornior, di Sorrentino stesso.

Tra forma e contenuto c’è un rapporto simbiotico nella narrazione, di ricerca e complicità. Quanto ha influenzato leggere la vita degli altri attraverso i diari degli infermieri?

Il testo è volutamente frammentario, benché diviso in capitoli dove ricorrono gli stessi elementi (le tracce dei rapportini, alcuni dei personaggi), capitoli che vengono a comporre un’unica storia, in definitiva. È il riflesso della struttura dei rapportini ma anche della memoria, che procede per frammenti e dai frammenti cerca di ricostruire: persone, eventi, situazioni. Del resto, mi pare impossibile cogliere chiunque nella sua interezza: piuttosto la nostra conoscenza dell’Altro si limita a pochissimi minuscoli dettagli, che usiamo per immaginare, per farci un’idea, che non sarà mai esaustiva o corrispondente al vero. Ho scritto il libro nello stesso modo, credo, in cui nella vita procediamo verso la conoscenza degli altri.   

Durante la stesura del romanzo c'è un continuo lavoro di messa a fuoco dei personaggi e della trama. Ci sono state letture che hanno influenzato in qualche modo la visione del quadro narrativo o la descrizione di qualche dettaglio?

Immagino siano le letture di una vita, così diverse e importanti, con le quali mi sono formata (o nelle quali ho ritrovato il mio pensiero, o con cui le mie idee si sono messe in relazione, a volte in conflitto) e che nel tempo hanno informato il mio modo di scrivere. La letteratura anglosassone e quella tedesca, soprattutto. La forma di questo libro non nasce però da una lettura in particolare, di sicuro non da un testo narrativo.

Che tipo di lavoro è stato fatto durante la stesura del romanzo accanto a un medico psichiatra?

Sorrentino raccontava, condivideva pezzi di memoria, in “sessioni” che non erano che chiacchierate tra amici. Poi annotavo, inventavo, ricreavo, gli facevo leggere o gli leggevo le storie che ne nascevano. Leggevo e rileggevo gli appunti degli infermieri, ricomponevo e cancellavo. Anche il lavoro è stato frammentario, ed è durato molto tempo, perché scrivevo quando mi garbava, senza fretta, senza regole.  

Quanti anni hai impiegato a scrivere il romanzo? E, a distanza di tempo, cosa è cambiato nella visione della struttura, o nella stessa scrittura?

Con un sistema così certamente c’è voluto tempo, anche perché data la materia tanto delicata, così importante, avevo bisogno d’esser certa di aver trovato il tono e il linguaggio giusti. Quando io stessa ho compreso a fondo il senso di quello che stavo facendo, puntando sull’onestà e il rispetto, mi sono sentita libera e la forma del libro è venuta da sé.

La scrittura, in fondo, è questo: lasciare entrare lentamente tutte le voci di quelli che hanno qualcosa da dire. Cosa hanno da dire e insegnare ancora gli infermieri e i medici del tempo sulla legge Basaglia?

Naturalmente s’intende gli infermieri e i medici che avviarono la rivoluzione, ne furono parte, o fecero di tutto per applicare al meglio la Legge 180. Fu un’esperienza umana, prima di tutto, che metteva al centro la sofferenza del malato e non la malattia, i diritti del malato, finalmente trattato come un essere umano e non come un mostro da rinchiudere. Con un approccio empatico, un nuovo linguaggio, impensabili per la vecchia psichiatria, tradizionale e obsoleta, ma gli unici capaci di distruggere l’istituzione totale. Il disegno strategico della 180 fu eccezionale anche perché immaginava, e in effetti costruì, una salute mentale territoriale, comunitaria. È questo che oggi va tutelato e in parte recuperato, quel “progetto” di allora, il modello territoriale, che coinvolgeva il “fuori” nella cura di chi era stato “dentro”, le famiglie, i centri di salute mentale, le cooperative, la rete dei servizi. È fondamentale oggi proteggere la legge più rivoluzionaria che sia mai stata fatta, proteggere l’eredità culturale di Basaglia, ricordando il più possibile le storie di chi è passato per i manicomi e se ne è salvato o non ne è mai uscito, e chi è riuscito a offrire al malato mentale una risposta nuova.
 
Il mondo del disagio mentale è un pianeta parallelo, per lo più scansato, nascosto e allontanato. Un luogo del dolore. Quanto fatica ha comportato narrare quei luoghi e quelle storie?

Le storie dei manicomi sono storie dell’orrore, inimmaginabili. Nel libro ho cercato di non eludere quella sofferenza ma comunicarla con la massima delicatezza possibile e spero senza retorica, perché non la si dimenticasse e si comprendesse l’importanza del lavoro di superamento. Mi sono quindi concentrata sulla bellezza delle storie di chi ha incontrato le nuove strutture psichiatriche nate con la Legge 180 e le persone di grande umanità che vi lavoravano.

È un lavoro in cui convergono caratteristiche proprie del romanzo, e in qualche misura la saggistica, abbandonando i solchi di un genere identificato? Dove è visibile e l'impronta personale?

Amo molto le forme narrative ibride, che mescolano con sensibilità e onestà generi diversi, senza troppe questioni. Non è un lavoro molto semplice, mi pare piuttosto il frutto di un’attività lenta, articolata, ragionata. Mi piace il cambio di registro, l’uso della punteggiatura, delle maiuscole, come elementi narrativi, mi piace che la parola si disponga sulla pagina in modi diversi a seconda di ciò che si deve raccontare. Tutto deve essere al servizio del racconto della memoria, che è ciò che più mi interessa.

Hai scritto un diario, hai parlato dei diari degli altri, quale potrebbe essere il tuo diario in merito alla partecipazione al Premio Calvino?

Anche questa un’esperienza di grande umanità e calore.

Francesca Valente è nata ad Asti nel 1974, vive attualmente a Torino. È stata traduttrice dall’inglese, dal francese e dal giapponese. Ha scritto il libro per bambini, “Il miele. Tutti i segreti delle api” (Slow Food Editore, 2010), e dal 2014 è copywriter in un’agenzia di pubblicità̀. Ha studiato giapponese a Ca’ Foscari di Venezia e Arte Contemporanea all’UCLA (University of California, Los Angeles) ed è vissuta in Giappone.
Alberto Sagna
01-07-2021


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