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"La vita nascosta" di Terrence Malick

Tutto il film ruota dentro una frase di introspezione, "il mondo non si può cambiare" seminata nel pensiero, negli interrogativi che echeggiano come il canto di una sirena

Questa è una storia cruda.

Ma è anche la storia di un regista che è riuscito a creare con un montaggio perfetto l'incarnazione di un conflitto interiore che porta a rendere autentica la testimonianza di una vita, di una scelta, quella verso la prigione, cancellando il passato, il tempo mite della campagna, quando poi è la stessa vita rurale ad aver creato un destino.

Dentro a ogni immagine non c'è solo fotografia, perché è ricostruzione, frammento psicologico che apre a una lettera, uno scritto ideale, un pensiero che scava in profondità attraverso parole che sanno raccontare.

I dialoghi sono in forma di lettera, e queste lettere raccontano la coerenza, le corse tra la campagna, il ricordo di un viso, quello della moglie. Sono lettere che riscrivono le immagini, creano un cerchio attorno alla vita di un contadino, Franz, che non poteva accettare di combattere una guerra in cui non credeva, quella di Hitler.

Viene chiamato alle armi, ma lui rifiuta. Respinge ogni compromesso, perché respinge l'idea di una guerra sbagliata, del barbaro soldato addestrato per uccidere, di usare, quando si addestrava, una lama addosso a una giubba indossata da un pupazzo di fieno, che è un corpo, per lui intangibile. Per gli altri è un dovere annientare un uomo.

Hidden life è proprio questo, l'orrore della guerra accostato all'intimo più privato, alla prova di coscienza. La misura del tormento, che è fede.

Tutto il film ruota dentro una frase di introspezione, "il mondo non si può cambiare" seminata nel pensiero, negli interrogativi che echeggiano come il canto di una sirena.

Franz non vuole cambiare il mondo, racconta il suo mondo.
L'emisfero della vita rurale cresce a ogni minuto del film, sovrasta il male della guerra, ma non lo vince nella realtà. Lo vince dentro la persona. Anche in carcere, perché non è servo di nessuno, si sente libero di rifiutare anche davanti alla morte.

Il rifiuto alla leva diventa una scia, ogni scena si lega all'altra perché ogni passo che fa quel contadino è germe di sentimento, e ogni parola è come se stesse scrivendo una poesia, e ogni verso conduce a una storia che diventa epica. In fondo, lui rispecchia la montagna, a costo dell’emarginazione sociale che arriva e tocca anche sua moglie, l’unica a sostenerlo.
Tutti vorrebbero salvarlo, convincerlo, tutti mettono la sua idea a dura prova, nessuno può salvarlo cambiando il suo mondo, o con parole che rappresentano un universo da cui lui si discosta.

La scelta dei testi, la fotografia curata da Jörg Widmer, il girato, e poi quell'altalenarsi di immagini vicine di lui o della moglie, del sindaco o quelle dei contadini nei campi prima da vicino ma in diagonale, e poi dall'alto, con le parole che scorrono come memoria, creano un effetto verso il tempo, come se il regista volesse addomesticarlo, levigarlo, cucirlo addosso usando il grandangolo, sapendo che indietro non è possibile tornare.
La presenza del male, della guerra di Hitler aleggia per tutto il film.
Il male è più forte.
Ma di cosa?
È questo l'interrogativo che affronta Terrence Malick con una prova di autore nella regia.
Il suo rifiuto alle armi, quello del contadino, diventa una preghiera laica dentro un andamento a tratti solenne. È una guerra diversa, viene accesa una luce diversa.

Nella versione originale sono rimasti molti dialoghi in tedesco e senza sottotitoli, nel resto del film gli attori parlano un inglese addomesticato dall’inflessione tedesca, dai loro luoghi, come per andargli incontro.
A un certo punto l’inquadratura è tutta per un uomo con la barba bianca che strilla.
Un compagno del villaggio, che urla in tedesco per qualche minuto. Urla la sua contrarietà al gesto di Franz, la traduzione parola per parola è superflua, sono le espressioni che creano l’urto, la direzione.
È anche un momento in cui il cinema mostra e parla di sé stesso, descrivendo un meccanismo di funzionamento del linguaggio utilizzato. Viene reso palese un punto di vista emotivo, che si “guarda guardandolo”.

Candidato come miglior film all’Indipendent Spirit Awards, in Italia ha avuto una distribuzione ostacolata dalla pandemia di Coronavirus nel 2020. È stato poi presentato in concorso alla 72ª edizione del Festival del Cinema di Cannes.

La storia è ambientata nel 1938, e il soggetto del film di Malick riporta un fatto vero, quello del contadino austriaco Franz Jägerstätter, interpretato da August Diehl  (“Bastardi senza Gloria” e “Il Giovane Karl Marx”).

Il film è stato girato fra le montagne di Bressanone, Brunico e Sappada.

La vita nascosta – Hidden Life porta con sé un paradosso: è un film sulla guerra, ma non si vedono battaglie, soldati che combattono, spari, cannoni. Il cuore del film è un piccolo villaggio di montagna, con i suoi campi, con le donne armate di falci per tagliare l'erba, il grano, una cascata, ruscelli.

Ecco, proprio lì l'etica nazionalista viene sostituita dall’etica personale.
Conflitto morale e natura sono rappresentati come oscillazioni continue, perché simboli della immutabilità.

Una piccola chicca: il titolo originale del film era “Radegund”, che è proprio l'omonimo paesino dove visse il contadino Franz Jägerstätter.

Prima di far partire i titoli di coda, il regista fa scorrere le parole di George Elliot (pseudonimo di Marie Anne Evans) prese dal romanzo “Middlemarch", cerca ancora una luce, o prova a spiegare le ragioni del tormento nell’innocenza primordiale:

"Poiché il bene crescente del mondo dipende in parte da atti non storici; e quelle cose non sono così negative per te e per me come avrebbero potuto essere, in parte a causa del numero di persone che ha vissuto fedelmente una vita nascosta, e riposa in tombe non visitabili.".
Alberto Sagna
15-09-2021


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