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STORIA DEL GIORNALISMO ITALIANO, ALBERTO BERGAMINI E LA NASCITA DEL GIORNALE D’ITALIA” (1901) | IV PARTE
BERGAMINI E IL SUO MONDO CONTEMPORANEO.
Come si è scritto già nella premessa al presente elaborato gli anni finali del XIX secolo, quelli nei quali pienamente si svolse la grande affermazione professionale del Bergamini, furono di certo tempi sempre difficili ma contemporaneamente di concreto avvio di un’economia moderna come di migliore prospettiva di crescita economica per il nostro Paese: laddove, anzitutto, l’Italia di fine ottocento, inizi novecento, è quella interessata dall’avvento di una prima reale fase di industrializzazione. Infatti, tra la fine del secolo post illuministico l’ottocento e gli inizi del nuovo, un’era piena di speranze, quale era il novecento, anche la “nuova nazione italiana” finalmente venne coinvolta ed attraversata sui suoi territori da una prima consistente fase di sviluppo industriale. Si concretizzano, anche da noi, fattori moderni di crescita avvicinandosi a quelli omologhi che negli anni precedenti avevano maggiormente riguardato altre nazioni europee, quali la Francia e l’Inghilterra, ma soprattutto la Germania. Una situazione di primo effettivo sviluppo economico che consentirà, seppure con ritmi più lenti e risultati complessivamente meno strutturali, di poter cambiare volto ad un Paese da pochi decenni, e senza il forse solo formalmente, riunificato.
Invece, sarà proprio nel ventennio posto a cavallo tra la fine dell’ 800 ed il 900 che alcuni Stati continentali si affermeranno come vere potenze industriali. Anche se tale crescita economica, in alcune fasi divenuta addirittura tumultuosa, avvenne sempre all'insegna dell'autoritarismo e del perdurante scontro d’interessi fra gli Stati europei e l’America ora federata sviluppandosi in una lotta post coloniale planetaria per la supremazia economica e politica. Infatti, la corsa alle materie prime ed all’appropriazione di sempre nuove risorse in ogni ambito territoriale dei continenti supera la precedente secolare gara alle sole risorse delle colonie che vengono letteralmente spogliate: Asia, Africa ed America centrale divengono, proprio in quelle epoche, i territori maggiormente sottoposti alle crescenti mire espansionistiche delle varie potenze continentali, in lotta tra loro. In tale situazione storica, l’età dell'imperialismo viene a coincidere o meglio, in quasi tutti i paesi industrializzati, arriva anzi a collidere fortemente con le sempre crescenti rivendicazioni sociali ed economiche espresse dagli strati popolari, congiuntamente alle classi emergenti. Laddove le aspirazioni socio economiche popolari più diffuse si configuravano, in specie, nella richiesta di maggiori diritti fra i quali quelli basilari alla vita delle persone, al cibo, alla sicurezza, a cure per migliorare le prospettive umane. Si trattava di aspettative primarie avanzate sopratutto dai lavoratori organizzati nelle nuove formazioni sociali e sindacali, come da parte delle nuove classi sociali urbane in genere “proprie” delle c.d. masse proletarie ed urbane. D’altronde, erano rivendicazioni migliorative di epoca moderna, comprensibili, ma nei cui confronti invece i governi continentali di quell’epoca assumono, per cieca difesa degli assetti sociali ed economici esistenti atteggiamenti di netta chiusura che nella reale difficoltà di dare concrete risposte divengono spesso autoritari, retoricamente nazionalistici ed intransigenti. Tanto da configurare un pericoloso dualismo sociale: - quello consistente in una lotta sempre più serrata tra la conservazione degli esistenti privilegi economici di classe, ovvero lo “status quo” garantito per pochi ed il progresso sociale che invece si voleva conseguire per i più. In Italia, ricordiamo in proposito i moti popolari di Milano conclusi con il feroce intervento repressivo effettuato dall’esercito guidato dal gen. Bava Beccaris che, nel 1898, fece sparare con i cannoni e la mitraglia sulla folla dei manifestanti inermi.
Inoltre, come se ancora non bastasse ad un quadro tanto deficitario, si aggiungono nuove mire espansionistiche con connesse rivendicazioni territoriali, qualche volta, come per l’Italia, basate su residui periodi storici di fulgore ma oggi coinvolgenti le nazioni confinanti. Così, negli anni '90 del decennio finale dell’Ottocento, anche il nostro paese per una distorta volontà governativa di essere potenza estera viene ad essere coinvolta in diverse susseguenti, sempre ampiamente deficitarie, avventure pseudo coloniali. Imprese all’estero militarmente fallimentari, umilianti e negli esiti inutilmente sanguinose dovute alla politica improvvida ed interventista di Francesco Crispi. Politico italiano che resta fra i più noti statisti dell’epoca, Ministro e presidente del Consiglio, nel periodo storico posto a cavallo fra il XIX ed il XX secolo che, ricoperto più volte l’incarico di Presidente del Consiglio dei Ministri, nel decennio fra il 1887-1896 decise con gli esecutivi l’invio in Africa settentrionale di diverse spedizioni armate di conquista coloniale.Tutte, peraltro, invariabilmente concluse con avventure disonorevoli, costose sconfitte, aventi esiti gravemente negativi per morti e feriti e più di tutto per l’onore, come confermato, già dalle risultanze negative della nostra prima nostra avventura coloniale nel continente Africano. Come, ad esempio, avvenne con quel corpo di spedizione militare disastrosamente sbaragliato dalla grave sconfitta di Adua avvenuta nel 1896. Un così grave episodio che pure, sia per il governo che per la intera classe politico-militare italiana, avrebbe dovuto essere illuminante tanto da costituire un obiettivo campanello di allarme per il futuro. Invece, fu ignorato come segnale preoccupante. Poi si farà ancora di peggio, come nell’immane sconfitta di El Alamein di fine 1941 chiusa con decine di migliaia di morti ed oltre 130 mila nostri soldati fatti prigionieri dagli inglesi in Egitto. Tornando alla situazione italiana nascono in quegli anni di prima espansione sociale unitamente allo sviluppo delle prime grandi industrie moderne, anche i primi sindacati rappresentativi dei lavoratori. Per lo più si trattava di associazioni d’ispirazione socialista, poi cattolica e comunista, sorte per la difesa dei lavoratori contro le forme capitalistiche di sfruttamento esistenti all’epoca, lo strapotere delle imprese e dei datori di lavoro sui salariati dipendenti e quindi allo scopo di migliorarne decisivamente le condizioni di lavoro e le retribuzioni. Nel mentre, intanto, continua ad si intensificarsi il processo di ammodernamento e di sviluppo del nostro Paese che viene soprattutto rivolto in direzione di un’adeguata crescita industriale nei settori strategici, quali l’elettrico, energetico, meccanico e siderurgico. Aumentano i mezzi di comunicazione con le possibilità di trasporto prima sulle reti ferrate, poi su quelle stradali e tramite essi si facilita la diffusione di giornali, quotidiani e riviste che può divenire sistematica sul territorio nazionale. Quale diretta conseguenza del migliorato dato culturale nazionale diminuisce, in misura significativa, il numero degli analfabeti mentre aumenta quello delle persone in grado di parlare e capire correttamente l'italiano, anziché i soli dialetti locali.
Sotto altro specifico aspetto, ovvero quello propriamente della diffusione culturale, elemento cognitivo che risulta necessario per poter inquadrare il ruolo svolto dai nuovi intellettuali nella rinnovata compagine sociale, occorre sottolineare un dato essenziale, ma di difficile lettura. Ovvero, quell’aspetto per così dire di “classe” o di elite che pur registrandone gli innovativi contenuti contemporanei vede rimanere, in loro, una permanente condizione soggettiva di incertezza. Si può forse parlare di una forma sistematica di insoddisfazione intellettuale dei più e quasi di sradicamento culturale calato in quella difficile fase storica “di transizione” con una complessità che infine distinse in negativo tali figure. Probabilmente, l’incapacità da essi dimostrata nel leggere compiutamente le profonde, eppure piuttosto preoccupanti, evoluzioni sociali che allora erano in corso venne causata dalle particolarità proprie di un’epoca intermedia, di trasformazione incompiuta, quella intercorsa fra la fine dell'Ottocento e l’insorgere dopo appena tre lustri del nuovo secolo mentre si era in piena espansione socio politica della Prima guerra mondiale. Le concause scatenanti del fenomeno furono numerose, fra queste rammentiamo: da un lato, la nuova coscienza collettiva indotta per noi dalla dichiarata fine del Risorgimento pur con avvio delle inutili ed anzi dannose imprese coloniali e, dall’altro, lo sviluppo sempre crescente, di una nuova società con una composizione che ormai era prettamente medio borghese. Quindi, si era di fronte ad una complessa evoluzione, si creava una composizione sociale ben diversa dalle rigide distinzioni di classe che erano proprie del passato. Inoltre avente caratteristiche culturali innovative, comunque, piuttosto distanti rispetto al decorso periodo proprio del romanticismo classico. Una nuova classe “media” all’apparenza almeno, in quanto si connotava con i tratti del perbenismo, spesso di pura facciata, ma coltivava interessi reali diversi e molto materiali. Dato che aveva per obiettivo essenziale da raggiungere nel concreto le prospettive più pratiche, reali, quelle tese al miglioramento del benessere individuale, al conseguimento degli aspetti materiali, se non proprio consumistici, piuttosto che quelli artistici.
Nella successione temporale concorsero poi al vuoto culturale esistente nei nostri strati popolari gli altri fattori strutturalmente negativi per il Paese: in particolare, si trattava degli aspetti costituiti dalle sempre crescenti e pericolose tensioni sociali. Quelle gonfiatesi a causa dell’espandersi tanto rapido del neo proletariato industriale, con lo sviluppo incontrollato dei grandi agglomerati sub-urbani e la conseguente formazione di un pubblico di massa, prevalentemente urbano, eterogeneo nella composizione quanto contemporaneamente culturalmente impreparato. In proposito, si deve solo riflettere sul dato numerico che in Italia vedeva ancora nell’anno 1885 il 58% del totale del reddito economico nazionale prodotto dal settore dell’agricoltura. Come si vede, ben al contrario degli stati europei più evoluti, si trattava di dato configurante un indice statistico generale di significativa arretratezza.
Infatti, una tale entità statistica può far comprendere all’analista storico il senso di quel difficile contesto socio-economico di trasformazione che pure caratterizzava quel particolare periodo storico italiano. Tuttavia, si progrediva, in effetti proprio a partire dalla fine dell’Ottocento, cominciarono a diffondersi gli impianti idroelettrici che consentirono di produrre, accumulare e trasferire questa grande risorsa consentita da un’innovativa forma di energia che permetteva di portarla, mediante cavi aerei, anche in località distanti dai tracciati dei grandi corsi d’acqua. Tanto che le industrie, fino ad allora concentrate prevalentemente nei fondovalle e nelle zone di pianura ben irrigate, cominciarono invece a diffondersi soprattutto nei dintorni delle grandi città. Tanto per poter adeguatamente beneficiare, negli aspetti logistici ed infrastrutturali dei numerosi vantaggi ora dati dall’ubicazione ferroviaria e stradale. Poi, quasi a chiusura degli anni ottanta del XIX secolo, nacquero i primi impianti siderurgici, quelli meccanici e chimici ma, il vero e proprio balzo in avanti, dell’industria nazionale si ebbe proprio a cavallo dei due secoli: in effetti, proprio dai primi del 1900 in avanti la produzione relativa aumentò mediamente al ritmo statistico del 12% annuo. Quando per l’Italia sembrava fosse tutto avviato per il meglio, invece, ecco che arriva il disastro bellico. Purtroppo, appena prima dell’estate del 1915 per improvvida decisione della inetta classe politica allora al potere del Paese arrivò la I grande guerra a distruggere ogni progresso economico sociale fin lì raggiunto. Assorbendo, a causa del pluriennale sempre crescente sforzo bellico da dover forzatamente compiere, allo scopo e pur senza averne adeguata possibilità, tutte le risorse possibili. Si dovette dare fondo, utilizzando ogni energia e mezzo disponibile: l’industria di guerra divenne così la nostra intera economia e tale impegno improbo durerà fino alla fine del 1918. Tale situazione avrà l’effetto reale di troncare la crescita complessiva socio economica del nostro Paese creando le basi critiche della situazione successiva di instabilità politico istituzionale che poi avrà, come unico sbocco, l’insorgenza del regime dittatoriale.
Comunque, nel primo dopoguerra, a sostegno dello sviluppo industriale ebbe un ruolo di primo piano lo Stato istituzione pubblica che dovette intervenire direttamente per stimolarlo, tramite le grandi progettualità possibili in quei tempi. Quelle che concretandosi passavano attraverso la costruzione di ferrovie, strade, dighe, ponti e di grandi opere pubbliche soprattutto nelle regioni del nord, solo qualcuna invece al sud. Riguardo a ritardi ed inefficienze di sistema si pensi, fra i tanti problemi, alla mancata ricostruzione delle città di Messina, Reggio di Calabria e Villa San Giovanni, località che erano state colpite, e quasi completamente distrutte, dagli effetti catastrofici del maremoto scatenatosi sui mari dello Stretto all’alba del 29 dicembre del 1908. Senza che vi fossero interventi di soccorso e poi di ricostruzione. Anzi, con le varie provvidenze statali previste da un regio Decreto del settembre del 1917 che non vennero mai attuate sui territori danneggiati.
In sede nazionale, invece, il sostegno statale all’economia avvenne anche tramite le sovvenzioni dirette ad alcuni gruppi industriali attraverso forme di aiuto statale attuate tramite commesse pubbliche (ad es. nella cantieristica navale e nell’industria più strategica che rimaneva quella bellica). Inoltre, il governo agì pure con l’introduzione della tariffa protezionistica per poter disincentivare le importazioni dall’estero, ovvero gestendo direttamente alcuni servizi pubblici nazionali di settori nascenti (come, i telefoni, poste e ferrovie). Oppure, ancora controllando il settore del credito alle imprese che, in quell’epoca, avveniva esclusivamente tramite il sistema bancario privato. Tanto che, nel 1893, per poter consentire un intervento pubblico essenziale di regolamentazione del settore venne fondata la Banca d’Italia una istituzione pubblica e centrale di controllo del credito. Inoltre, con lo sviluppo industriale si allargò, in conseguenza diretta favorevole, il mercato interno visto che aumentarono molto le produzioni ed il commercio di beni alimentari, tessili e di uso divenuto comune, ormai resosi di consumo (biciclette, macchine da cucire, utensili per la cucina, la casa e tanti altri). Mentre le fabbriche crebbero nelle dimensioni, come in generale gli impianti produttivi, e si concentrarono nel cosiddetto “triangolo” industriale: a Milano, con la Breda, divenuto polo per la produzione dei treni; a Torino con la Fiat per il nascente settore automobilistico; mentre, a Genova, avevano sede le importanti acciaierie Ansaldo. Tuttavia, queste pur grandi industrie nazionali dell’epoca, a causa di componenti strutturali di base carenti come di processi lavorativi che non erano adeguati alle migliori tecnologie pur disponibili in Europa, non risultavano poi particolarmente competitive sul mercato internazionale. Nel mentre, ed al contrario degli altri modelli europei, furono proprio le imprese più piccole e specializzate in un dato settore quelle trainanti. Quali la Olivetti per le macchine da scrivere, la Bianchi per le biciclette o la Marelli per l’elettricità e le lampadine le aziende che si rivelarono per essere le più produttive e dinamiche sia per le esportazioni all’estero che per alimentare i crescenti consumi interni dei cittadini italiani.
Tuttavia, lo Stato italiano soffriva di secolari e insuperabili problemi strutturali che, nell’avvenuta riunificazione, permanevano intatti e pesavano sul futuro. Infatti, i deficit erano primariamente dati dai profondi squilibri di natura socio-economica sussistenti sui diversi territori e le popolazioni residenti. Nella specie, intere zone nazionali non solo al sud ed al centro della penisola si presentavano con aspetti di grave arretratezza che era situazione consolidata in ogni ambito e settore di attività, dal pubblico al privato, tanto da integrare aspetti sociali nella prospettiva allarmanti. Proprio per questo, nonostante l’intervenuto sviluppo industriale del Nord poi reciso dalla guerra, la storica questione meridionale si fece molto sentire verso la fine dell’Ottocento, pesando ancor maggiormente agli inizi del Novecento, sulle nostre sorti: in effetti, rispetto alla concentrazione delle migliori industrie al settentrione grazie alle infrastrutture viarie, ferroviarie ed elettriche realizzate si aggiunse uno sviluppo ineguale anche in agricoltura. In quanto al sud, per la maggior parte, i terreni rimasero nelle mani dei grandi latifondisti, soggetti che non investivano i propri capitali, per innovazioni e nuove colture, limitandosi alla fruizione personale e famigliare di pura gestione conservativa della cd rendita fondiaria tradizionale. Mentre, invece, anche grazie a forme di unione e cooperazione, nelle fertili regioni del nord Italia si svilupparono in forme moderne le produzioni cerealicole attuate su larga scala e con l’uso combinato dei primi concimi e delle nuove macchine agricole. Allora, ai fini di una doverosa completezza di analisi nell’esame socio economico complessivo di quell’epoca storica nazionale travagliata che, contemporaneamente, vedeva crisi e cambiamento comunque tesa verso un trapasso epocale, deve qui aggiungersi l’adeguata considerazione di un altro grave fattore strutturale che si verificò per l’Italia. Una situazione causata dalla crisi economica che incise molto negativamente indebolendo la struttura sociale dell’Italia ancora prima degli eventi bellici. Una Nazione, quella italiana, che in effetti tra la fine dell’Ottocento e l’epoca di poco precedente alla prima guerra mondiale, ovvero nel corso di meno di un ventennio, venne ad essere interessata da un fenomeno migratorio di massa verso l’estero. Infatti, numerosi cittadini sia appartenenti al nuovo “proletariato urbano” e sub urbano già socialmente emarginato nelle ampie metropoli, così come contadini ed abitanti rurali e di zone svantaggiate partirono per l’estero. Gli emigranti nostrani erano persone prevalentemente provenienti dalle regioni meridionali, laddove erano residenti in quelle ampie zone del sud che continuavano ad essere afflitte da un plurisecolare sottosviluppo economico, tanto da spingerli a dover preferire di lasciare il nostro Paese ove non vedevano possibilità. Tanti di essi partirono, fra il 1890 ed il 1910, con le relative stime che attendibilmente indicano cifre nell’ordine dei 9 o 10 milioni di emigranti dall’Italia ed i cui flussi sfruttavano le favorevoli possibilità offerte dai mezzi del moderno trasporto marittimo di massa dati dalle grandi navi passeggeri entrate in esercizio. I nostri connazionali emigrarono in America: sia del nord che del sud. Argentina e Brasile, ma anche il Venezuela, il Cile ed il Perù furono i paesi di prevalente destinazione dei nostri emigranti. Mentre, dopo il 1900 soprattutto si concentrarono negli Stati Uniti ove si pensi che, nel solo anno 1906, giunsero ben 358.000 italiani, circa mille al mese, tutti sbarcati a New York passando per il “periodo di quarantena” dal temuto centro di osservazione degli immigrati posto nell’isola di Ellis Island di fronte a Manhattan di New York. Tale il loro numero che, già nel 1910, la metropoli americana diventò, nei fatti, la quarta città italiana per numero di abitanti venendo dopo Roma, Milano e Napoli e il totale degli italiani che emigrarono nel quindicennio compreso, tra il 1900 ed il 1914, viene plausibilmente calcolato nel numero di oltre nove milioni di persone: delle quali circa l’80% del totale era di origine e provenienza meridionale. Invece, al contrario, quale aspetto positivo di tendenza proprio in quegli anni, in Italia, si può assistere al raddoppio del numero degli addetti occupati nell’industria medio pesante. Era questo un dato generale confortante per l’intera economia nazionale, dovendosi rilevare però che gli operai spesso lavoravano in condizioni molto dure, in ambienti malsani e ristretti oltre che senza il riconoscimento dei più elementari diritti. Inoltre, essi per la loro quasi totalità vivevano nei nuovi quartieri popolari periferici sorti nei pressi delle fabbriche ospitati in edifici urbani economici nella costruzione. Secondo gli stilemi urbanistici del tempo erano quelli composti da case tutte uguali, seriali nella progettazione che sviluppavano modeste dimensioni metriche (non più di 100 mq) e sviluppate in linea verticale, su più piani abitabili. Edifici strutturalmente contraddistinti dai vasti cortili interni e dai servizi igienici essenziali posti in comune, sui ballatoi esterni: si trattava delle tipologie urbane cd neo industriali proprie delle c.d.“case di ringhiera”. Nel mentre, decisamente migliori erano invece le condizioni di vita disponibili per l’altra classe sociale, quella media, numericamente in espansione. Infatti, essa sempre di più con il relativo benessere aveva acquisito centralità ed affollava, ormai quasi prevalentemente le città, identificandosi nella classe media, anzi, secondo l’espressione coniata dalla letteratura sociale, nella cd “borghesia urbana” questa era divenuta il ceto sociale più benestante attraverso i nuovi impieghi “di concetto” non riservati agli operai. Tanto che, nella successiva età giolittiana, sarà proprio questa compagine sociale a divenire quella prevalente, una classe centrale che andava sempre più espandendosi nella propria consistenza numerica. In effetti, proprio in quel periodo temporale sotto specifici aspetti così multiforme ed espansivo, attraverso l’edificazione con innovativi stili architettonici, le nostre città cambiarono profondamente rispetto al loro aspetto precedente. Poiché alle zone prevalentemente edificate prima o durante l’età medioevale come in alcuni dei periodi immediatamente successivi, si aggiunsero recenti insediamenti. Come tali aventi nuove caratteristiche rispetto a quelle proprie del tessuto urbano di quei precedenti periodi storici ed alle stesse edificazioni successive o risorgimentali si vennero ad unire, nell’espansione, innovativi profili urbanistico edilizi. In tal modo, modernizzandosi gli agglomerati con ampliamento delle infrastrutture urbane così come migliorandone gli arredi cittadini. Infatti, furono costruite nuove strade, viali, piazze, giardini pubblici, ospedali, scuole, reti tranviarie: ad esempio, a Milano, nel corso del 1900 venne realizzata la prima linea urbana semi sotterranea di trasporto pubblico della nazione. In proposito deve dirsi che, all’epoca, l’impresa infrastrutturale da compiere era di difficile realizzazione tecnica e avvenne attraverso modalità complesse, quasi pionieristiche: il risultato fu la metropolitana meneghina. In ogni caso, con il raggiungimento e la diffusione più uniforme di un maggiore benessere relativo, sul territorio nazionale, la popolazione aumentò notevolmente nel numero infatti, da un lato, diminuì notevolmente la percentuale di mortalità per minore incidenza delle tradizionali malattie, soprattutto neonatali ed infantili; mentre, dall’altro, si allungò la sopravvivenza media sia degli uomini che in misura ancor maggiore quella delle più resistenti donne. Così come cambiarono, anche trasformandosi radicalmente, molte delle abitudini e tradizioni popolari come fin lì tramandate e consolidate sui nostri territori ampliandosi le possibilità di svago e di divertimento delle persone anche quelle meno abbienti. In tal modo, cambiarono e si diversificarono gli spazi cittadini disponibili al terzo tempo che si vennero affollando progressivamente di ritrovi, ristoranti, anziché semplici osterie, tradizionali locande o ancor di più modesti ritrovi. Così, crebbero molto nel numero come nella qualità i locali di intrattenimento, frequentabili ora anche nelle ore serali, grazie alla diffusione dell’elettricità (Cafè chantant, varietà) si diffusero nuovi balli di origine estera (tango, fox-trot) e prese avvio, pionieristico dapprima, poi ed in modo sempre più fiorente apparve una nuova industria, quella cinematografica. In aggiunta, quel progressivo benessere molto incise influendo positivamente anche su quei generi artistici più tradizionali come l’opera ed il melodramma che pur essendo rimasti popolari per la maggioranza degli italiani furono anch’essi investiti dalla modernizzazione: - ad esempio, il Teatro alla Scala di Milano venne illuminata da un complesso impianto d’illuminazione composto da un innovativo collegamento elettrico che riusciva ad alimentare l’accensione di ben 1091 lampadine luminose.
Quale ultima e tuttavia non certo secondaria considerazione con il raggiungimento di una migliorata situazione socio economica complessiva della popolazione questa, in sua parte sostanziale, ebbe a sviluppare dei nuovi e diversificati interessi oltre quelli essenziali di vita. Infatti, diffusosi quel primo stato di relativo benessere, sia a livello individuale che collettivo, con situazione progressiva distintasi per la sue modalità di espansione costante interna, oltre che quale portato continentale di quei tempi, fra gli altri aspetti culturali e di cura del tempo disponibile, anche l’Italia venne interessata dagli sviluppi creativi della cd belle epoque. Sul piano infrastrutturale, inoltre, la intera rete dei trasporti venne costantemente ampliata e migliorata anche se il traffico con veicoli su strada rimaneva ancora poco sviluppato vedendo una rara circolazione sia di automobili che di camion merci. Nel mentre, le linee ferroviarie, che allora erano sostanzialmente quelle di collegamento delle due dorsali fondamentali (la tirrenica e la adriatica), crescevano notevolmente nelle loro dimensioni e portavano a far sorgere nuovi nuclei urbani. Si costituivano dei nuovi centri di aggregazione abitativa intorno alle stazioni ferroviarie, agli opifici ed alle principali fabbriche. Nella nostra società iniziarono a diffondersi le prime forme collettive di villeggiatura al mare, in collina od in montagna allora date dalle maggiori possibilità edificatorie, quanto dalle capacità di spesa non essenziale, ora disponibili. Anche se, almeno al principio, tali possibilità restarono riservate ad un ceto più ristretto di aristocratici e di borghesi benestanti. Comunque, si trattava di situazioni positive, quelle di poter fruire di benefici personali, poi progressivamente ampliatasi verso la platea dei cittadini, anche se, causa le solite differenze di sviluppo esistenti nei diversi territori, gli effetti benefici rimasero soprattutto concentrati nelle regioni centro settentrionali del Paese. Occorre aggiungere la conoscenza di un altro dato innovativo rappresentato dal fatto che numerose persone intrapresero a praticare alcuni degli sport in specie mutuati dall’estero: come l’equitazione, il cricket ed il tennis, oltre al calcio delle origini ed all’italica ginnastica. Cominciarono a diffondersi altri beni, da allora meglio definibili di consumo, rispetto a quelli puramente essenziali in quanto necessari per le esigenze primarie della vita. Anche se l’automobile era ancora un oggetto elitario, pionieristico ed assai costoso quindi obiettivamente di lusso, così come l’automobilismo era uno sport riservato ad una ristretta categoria di appassionati abbienti. In effetti, secondo attendibili stime nel 1910, in Italia, circolavano solo 20.000 autovetture ed un’auto costava almeno venti volte la paga annuale media di un operaio dell’industria. Tra le principali fabbriche automobilistiche vi erano la FIAT, la LANCIA e l’ALFA aziende industriali nate tutte sul finire del XIX secolo ma gli italiani per muoversi con mezzi meccanici oltre al treno, continuavano a ricorrere soprattutto alla bicicletta, mentre restavano i cavalli e i carri trainati da animali. Ebbero poi grande impulso sia la diffusione dei telefoni avvenuta grazie alle prime reti di trasmissione che quella dei moderni mezzi radiofonici per i quali progressi tecnologici erano continui. Inizia l’epoca dei quotidiani a tiratura nazionale. Infatti, entro la fine dell’Ottocento, fra il 1876 ed il 1898, furono fondati altri grandi quotidiani aventi diffusione nazionale giornali che sfruttavano le nuove tecnologie riproduttive di stampa ora consentite grazie alle innovative possibilità di trasmissione: fra di essi spiccavano, per ampiezza delle zone territoriali di diffusione come anche per la obiettiva importanza conquistata il Corriere della sera giornale che era stato fondato con sede e redazione centrale a Milano, nel 1876. Inoltre, erano poi stampati e sempre più diffusi a livello nazionale Il Mattino di Napoli, il Messaggero e La Tribuna di Roma, la Stampa di Torino ed il Resto del Carlino di Bologna. Il pubblico dei potenziali lettori dei quotidiani crebbe, parallelamente alla diminuzione del tasso statistico dell’analfabetismo che passò dal 75% rilevato nel gennaio del 1861, quindi al momento dell’unità d’Italia, per giungere rapidamente a scendere a un tasso del 69% dopo un solo decennio, ovvero già nel corso del 1871. Un tale vistoso progresso culturale oramai divenuto di natura strutturale venne reso possibile in particolare dall’introduzione dell’obbligo dell’istruzione elementare nel Paese. Una situazione positiva di che allora fu consentita dall’intervenuta costruzione di molte nuove scuole. Tuttavia, esisteva un rovescio della medaglia nella società italiana dell’epoca rispetto a quanto appena rappresentato in positivo e quindi alla situazione favorevole di progressiva espansione dell’economia interna ben determinata dalla continua evoluzione del dato socio economico nazionale. Infatti, deve infatti essere ricordato come ancora nel 1911 nella nostra penisola ben un milione di bambini residenti in zone disagiate, rurali, pedemontane o di montagna ed in frazioni isolate non poteva, pur volendolo, frequentare alcun tipo di scuola. Inoltre, le situazioni soggettive e familiari d’indigenza economica se non di assoluta sussistenza, ovvero di vera e propria povertà, restavano numerose, quanto assai diffuse sull’intero territorio nazionale: senza neppure troppe distinzioni dal nord al sud della penisola.
I PARTE
II PARTE
III PARTE |
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di Federico PALUMBO, con la collaborazione di Giorgio PALUMBO |
09-11-2017
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